Report sul campo: Ibidem session

Eccomi a riflettere sul risultato del concerto di ieri sera realizzato insieme a Fabrizio Spera e Mario Cianca fra le mura di Ibidem. Anteprima della serie di concerti che vedranno la New Ethic Society agire nel locale romano per tutti i martedì di Marzo ed Aprile stimolando incontri legati all’improvvisazione.

Numerose sono le considerazioni. Dall’interno la musica del trio probabilmente ci ha regalato molte cose su cui pensare, la cui valenza probabilmente è preclusa a chi ha ascoltato la performance.

Ma quale punto di vista migliore per raccontare un concerto che quello di chi lo ha vissuto dal palco? Perché non cominciare a raccontare la musica per come si vive, invece che aspettarsi che la narrazione esterna possa svelare l’intimità reale della condivisione avvenuta fra musicisti? Ci provo, senza poter garantire nulla…

Ci troviamo tutti d’accordo nel percepire (a freddo…cioè questa mattina…) la percezione di una performance compositiva associabile al respiro. Naturale, senza costrizioni di pensiero, senza azioni coercitive sul materiale proposto, ma in completa simbiosi. E alla fine del concerto l’energia era raddoppiata dentro di noi. Sentivamo una profonda relazione con il “suonato” e con il racconto.

Il concerto si è dispiegato in 58 minuti di musica improvvisata, e non credo sia tanto comune non aver percepito mai l’idea di stagnazione. Era perfetto l’equilibrio delle parti, i ruoli impersonati dai singoli in una costruzione comune. I primi dieci minuti sono stati suonati ad una pressione e tensione considerevoli. Tale da annichilire probabilmente il pubblico. Ma considero anche che ieri il Mondo si è svegliato guardando un’ alba di sangue. Realisticamente il racconto dell’inizio di un periodo di guerra vicino a noi che ci riguarda e che, dopo due anni di pandemia globale, annichilisce ancora di più il senso dell’ “altro” come “amico”. Evidente che sia entrato nella mia (e nostra potrei dire) immaginazione. E quell’inizio brutale, con la tensione che per dieci minuti non ha ceduto un passo, mi riporta alla sensazione di impotenza e volontà di reazione all’ennesima prova della stupidità umana.

Il concerto poi si è avventurato in ambiti in cui il silenzio, si è fatto portatore di sospensione, avventura, e numerosi sono stati i momenti in cui le architetture del “niente” si sono fatte solide radici di senso. Come dire lo sguardo alla guerra che si rifrange contro lo spirito della sensibilità, dell’appartenenza, dell’amore. Amore per la propria essenza che in musica si relaziona ai materiali sonori “agiti” nello spazio della composizione musicale. Una nuova coscienza microtonale (per me), una virilità e affermazione fresca ed emozionata (Mario) ed il racconto del ritmo, della pulsazione e della danza (Fabrizio) gli assi di questa proposta di “specchio” su cui guardare il Mondo che ci circonda. Specchio che si infrange con la coscienza che non ci si può fermare ad immaginare, perché la guerra fuori non condivide lo spazio dell’immaginazione, ma vive nello spazio della brutale realtà. Per cui durante il cerchio del concerto, la chiusura richiama la brutalità iniziale, ma imperniata su una matrice melodica molto più forte, pentatonica e Ayleriana.

Chiaro che nell’improvvisazione non c’è un tracciato definito prima. C’è costruzione di un passaggio fra la foresta del possibile. Per una volta questa azione ci ha visto respirare insieme, superando ed erodendo confini, e in qualche modo consegnandoci un atto di estrema purezza e quindi di grande onestà comunicativa verso lo sparuto pubblico. Soprattutto di estrema onestà verso l’arte come “luogo” in cui il possibile è tanto vero tanto lo è il “reale”. Ed entrambi si confrontano proiettando possibili narrazioni di trasformazione.

E’ la culla di un pensiero capace di cambiare le cose. Ne sono sempre più convinto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *