Fruscìo

Io non credo sia necessario andare sempre avanti. Oggi sono 21 anni. 21 anni dalla morte di Carlo Giuliani. Ho passato gli ultimi 11 anni a ricordarlo, commemorarlo, difenderne la memoria, cercare di stimolare la contestualizzazione di una morte senza alcun senso. Ho provato, con le mie misere armi, a dire. A dire quanto Genova 2001 fosse lo spartiacque di un Mondo che non appartiene più alla mia generazione, una generazione che in tutti i modi provano a cancellare. Eravamo la forza del Mondo alla fine degli anni novanta. Gridavamo al cambiamento, pensavamo ecologico, lottavamo contro la globalizzazione dei mercati e dell’energia. Credevamo all’integrazione e riflettevamo sulla società multirazziale come progetto da edificare. Tutto quello in cui credevamo è sparito. Perso. Siamo fuori da ogni categoria. Troppo vecchi per essere aiutati, troppo giovani per essere saggi. Troppo stanchi per continuare a combattere e troppo disillusi per continuare a sognare.

Ventuno anni dopo, rimane la morte di un ragazzo nato il mio stesso anno. Ed oggi guardo a quei giorni con la paura che non siano esistiti. Per cosa siamo pronti a combattere? Per cosa siamo pronti a morire? Quanto riusciremo a difendere di quello che siamo stati? Quanto riusciremo ancora a dire?

Senza storie non siamo niente. Solo il fruscio di foglie nel vento. Carlo è la mia storia. E’ una delle nostre storie. Non dimentichiamola.

Contatto NES@Ibidem #8

Due mani che si sfiorano educano loro stesse ai concetti di pieno e vuoto. Disegnano volute intime di relazione, scoperta, immaginazione. Sono capaci di veicolare sensazioni potenti e durature, raccontano storie. Attraverso il contatto della pelle percepiamo la profondità e, a volte, l’abisso.

Doveva arrivare il momento che un report diventasse anche il saluto finale all’esperienza di organizzazione di questa serie di concerti presso lo spazio Ibidem Aps da parte di New Ethic Society. Almeno fino a qui….

L’ occasione era fra le più ghiotte, visto che il maestro di cerimonia è stato Giancarlo Schiaffini. Quando si parla di improvvisazione, difficile sarebbe trovare qualcuno con una più ampia esperienza di applicazione della stessa nei vari contesti espressivi del contemporaneo. E questa esperienza è tutta nel peso di ogni singolo gesto che “schiaffo” agisce nello spazio musicale. Ed il gruppo scelto per questo concerto era composto da persone che vivono l’improvvisazione facendosi domande, credendo alla valenza espressiva profonda di questa strana arte. Sul piccolo palco, quattro generazioni. Giancarlo Schiaffini al trombone, Luca Venitucci alla fisarmonica, me ai clarinetti, Mario Cianca al contrabbasso e Giulia Cianca alla voce. In ordine decrescente di età. E la musica che si è palesata in un enorme rispetto degli spazi, delle idee, delle possibili generatività dei materiali è stata, dal punto di vista interno di chi scrive, perfetta nella sua fragilità.

Ogni sentiero, ogni respiro, ogni parola, ogni articolazione stava nel corpo del suono in maniera aperta, propositiva, in perenne trasformazione, fuori da assunti semantici e linguistici consueti, con un suono di insieme pieno e affermativo, nella sua completa acusticità in linea con quel “camerismo anarchico” con cui mi piace chiamare le formazioni che rinunciano alla batteria….. Un capitolo fondamentale della mia esperienza di “attore” della musica improvvisata.

Una festa finale, piena di amici e di pubblico, in una calda fine di maggio. Una lezione imparata da un maestro, e condivisa da eterni studenti. Questo mi riporta alle mani dell’inizio.

Il luogo superficiale del contatto cela il lavoro profondo di ricerca, lo comunica, lo esalta, gli da il senso. E se quel contatto è voluto a tal punto da rubarlo ad un contesto che lo mette al bando, può scatenare energie tanto grandi da ridefinire la ragione stessa di quello che siamo e della musica che suoniamo.

Non luoghi-NES@Ibidem #7

Spesso rifletto su questa apparente ed ossimorica realtà attuale. La contemporaneità sembra abitare sempre di più i Non Luoghi, intesi come spazi separati dalla realtà (prevalentemente) fisica e meschina della quotidianità. L’ambiente social, la messaggistica istantanea, io che scrivo su una pagina digitale…fino ad arrivare al delirio attuale chiamato metaverso…Ma il Non Luogo è anche lo spazio dell’intimità, dell’io profondo, del “sentire” . Lo spazio delle emozioni, della ricerca e dell’azione. E allo stesso tempo è un non luogo anche l’arte, forse il primo in assoluto, in cui la realtà non è negata, ma assunta a paradigma di trasformazione, leva su cui agire per innescare l’ordigno dell’immaginazione.

photo by Paolo De Francesco

Ieri puntata speciale di NES@Ibidem, speciale perché fuori programma e nata per un impeto emotivo dato dall’incontrare un musicista con cui condivido le sorti da oramai venticinque anni. Da adolescente già conoscevo il suo nome (è di una decina di anni più grande di me), “famoso” in quella sacca provinciale e marginale dove siamo cresciuti e da dove lui non si è mai praticamente mosso : i Castelli Romani. Ho ritrovato l’amico, il compagno di mille concerti e di studio, un batterista “unico” nel suo essere completamente immune alla fascinazione esterna, privo di arrivismo, fragile e poetico in ogni gesto. La batteria come il suo Non Luogo di elezione, il suo spazio di esistenza, la sua poesia, catarsi e strumento unico di comprensione di un Mondo che sembra non avere nessun interesse a frequentare.

Nella musica improvvisata non esiste un parametro unico di analisi. Ho imparato che la Musica non pretende di essere in nessun modo, semplicemente è. Al limite la dividiamo in buona e cattiva nel momento in cui percepiamo il senso oppure no…Ieri in compagnia del bravissimo Mario Cianca, che sui non luoghi avrebbe molto da dire, abbiamo suonato per un piccolissimo pubblico, a dividere un luogo reale nello spazio di Ibidem. Il racconto della musica sarebbe banale, ma mi concedo di concentrare la narrazione su un punto preciso in cui Stefano Cupellini è rimasto da solo. Aveva portato con sé un arsenale di tamburi e quel solo si è basato su una figura precisa fra le due “casse” , espandendo e contraendo il tempo secondo una logica formale rigorosissima, e lucidissima. Ed ho avuto la percezione che il lavoro fatto insieme ci abbia influenzato profondamente, definendo nello sviluppo dei materiali (coerente e narrativo) il fulcro della nostra ricerca.

Mentre io ci ho scritto libri, insegno e faccio master su questa ricerca, Stefano semplicemente l’ha portata avanti senza avere nessuna urgenza di comunicarla. Senza avere la necessità di confrontarla con un luogo reale, ma tenendo salda la fede nel suo Non Luogo. Che come tale lo separa dal Mondo reale, lo emargina e lo tiene a distanza, così per la povertà di argomenti di condivisione come per la difficoltà di entrare in relazione con gli ambienti della musica che guardano sempre con ostilità verso chi risulta immune ai percorsi stabiliti come “necessari” e “da fare” per essere accreditati nel Non Luogo della “professione”. Ma la musica ripeto, non si crea questi problemi, e semplicemente è. E ieri sera è stata grande musica, su questo non ho dubbi.

Certi Angoli Segreti

Una visita ad un centro commerciale il sabato pomeriggio potrebbe rivelarsi una delle esperienze meno interessanti nella vita di una persona. Folla nel parcheggio, folla fra i “viali” interni, file davanti ai negozi…Se non fosse che questi bagni di folla sono sempre un pò strani dopo gli anni passati, dove tutto questo rappresentava, da una parte, il male assoluto (la pandemia…) dall’altra una rinuncia che da bravo misantropo (al limite del sociopatico) mi alleggeriva non poco delle incombenze famigliari….Ma questo sabato era la festa della mamma e per trovare qualcosa da portare alla mia vecchia signora che non vedo spesso come dovrei , sono finito insieme alle mie giovani signore (mia moglie e mia figlia) dentro un grande centro commerciale del quartiere Eur a Roma. Fino a qui la cronaca non dice niente di nuovo….Fatto sta che uno dei negozi in cui mi piace più andare sono le librerie. Ne ho una di fiducia (altro centro commerciale però), ma visto che mia figlia voleva comprare un Manga (fenomeno interessante questo dei dodicenni che fagocitano manga giapponesi, e ne hanno fatto una moda….) siamo entrati in questa libreria.

Ho preso la decisione di voler comprare più libri di poesia. Arte che testimonia il nesso fra musica e parola, e la più alta testimonianza della capacità dell’uomo di raccontare senza descrivere, di condividere l’intimo e il segreto. Nella parola poetica scopro emozioni, respiri, necessità di eccedenza e di andare al cuore del senso che, spesso, mi sono da guida per quello che cerco di fare con la mia musica.

Ma il contemporaneo non sembra accorgersi come me, della necessità della parola poetica, e sembra anzi far sparire dagli occhi degli umani consumatori la sua presenza. La nasconde e trasporta negli angoli della “nicchia” commerciale, perché si sa che il mercato non elimina nulla. Ho sempre pensato che questa fosse la grande “crepa” del sistema. Non riesce a non concepire tutto come merce, ed in quanto tale cerca comunque di venderla. Fra queste merci ci sono i semi possibili di una trasformazione….Sono semi antichi e sono sempre pronti a germogliare…Ma diventa sempre più difficile cercarli. In questa libreria, non trovavo uno scaffale dedicato alla Poesia. Abbiamo chiesto e ci hanno portato davanti all’angolo più nascosto del negozio. Lontani dagli assembramenti delle novità, defilati rispetto alla grande narrativa. Un angolo, in cui i libri erano lasciati quasi alla rinfusa, dove ho sistemato io alcune copie fuori ordine e con la costa verso l’interno dello scaffale. Qualche Neruda, il nostro Montale, alcuni francesi….Poche cose assiepate in due scaffali….che non sapevano contenere niente che parlasse di oggi attraverso l’oggi. Non Hikmet, non Darwish, non Masala, non Vicinelli, figurarsi Tavan, non Hirschman, Polansky, non Awad.

Esiste una poesia che mi accompagna da tempo…The Road Not Taken (tradotto in italiano come La via che non presi) di Robert Frost. Il poeta “nazionale” americano. Il cantore del rapporto con la natura, ma anche l’intimo narratore del canto celato nel terrore. Poeta di inizio novecento, figura iconica americana che in Italia non conosce grande fortuna, da sempre. Cerco i suoi libri da tempo, aspettando di incontrare la sua poesia, non volendola ridurre a semplice acquisto da fare on-line…Ed ecco in questi due scaffali miseri ed un pò offensivi comparire un Adelphi dal titolo splendido : FUOCO E GHIACCIO.

Le poesie di Robert Frost.

Vale la pena, credo, rischiare di mettere il naso nel Mondo, anche quello che non ci piace, che pensiamo lontano da tutto quello che vogliamo e siamo, per andare a cercare nei suoi angoli segreti le fila di discorsi che abbiamo tessuto con noi stessi nel corso degli anni. Una parte di noi che gira nel caos di questa “macchina” delirante che sembra dimenticare che nel guardarla ci si specchia e ad osservarla bene, numerose sono le strade da percorrere e tante le possibilità.

Mi volsi a Dio per dirgli

che il Mondo si dispera;

ma a peggiorar le cose

scoprii che Dio non c’era.

Dio si rivolse a me

(e non rida nessuno);

scoprì che io non c’ero-

non più della metà, almeno.

Ossi di seppia

L’occasione del concerto di BONE (al secolo Luca Venitucci : fisarmonica e Giusi Bulotta : contrabbasso) mi riporta a pensare ad una matrice importante del pensiero compositivo. Quanto i materiali che edificano la composizione siano importanti per il suo sviluppo, quanto essi racchiudano al loro interno possibilità pressoché infinite di elaborazione e come guardarli con occhi nuovi ci consegni le chiavi per una musica che si rinnova, che si reinventa e adatta ai contesti che la ospitano. Come dire che il processo compositivo è fluido, mentre l’elaborazione dei materiali è profondamente identitaria.

BONE è un duo che si dedica all’interpretazione della musica di Steve Lacy. L’indiscusso maestro del sax soprano che nella sua capacità di selezione dei materiali ha radicato la sua estetica ed il suo modo di suonare. Il suono di Lacy è materia plastica, il suo controllo assoluto dello strumento monumentale, la sua visione lucida e coerente, senza mai un cedimento ed un rigore espressivo che caratterizza tutta la sua produzione. E per questo un musicista difficilmente avvicinabile con leggerezza. La sua musica nasconde insidie pericolose, ed il rischio di adattarsi completamente al modello (spesso in modo deferente o passivo) è reale. Ma in BONE la musica di Lacy prende una via personale, intrisa di folk e rumorismo. I brani vengono lasciati come isole nel mare dell’improvvisazione, a volte come luoghi solitari, a volte come evocazioni della memoria che mutano nel percorso di sviluppo, si trasformano ed in questo modo appartengono ai musicisti che indagano con grande emozione i brani, li fanno propri tanto da rendere la musica estremamente personale, cameristica, sorprendente e affascinante.

Luca Venitucci non ha bisogno delle mie parole per essere presentato. Ma ancora una volta ha sorpreso per il suo totale controllo timbrico del proprio mondo musicale, fatto di suoni piccoli, timbri deflagranti, aperture drammatiche del mantice e suoni che esplodono come in una fantastica bottega di alchimista. Giusi Bulotta è contrabbassista solida, il suo suono è pastoso e accogliente che fa della morbidezza di attacco un grande pregio espressivo.

E penso agli ossimori. E a quanto la realizzazione pratica di queste inversioni del pensiero sia un punto a favore della creatività. Steve Lacy ha voluto, nella sua vita, sovvertire l’irrealizzato dell’ossimoro. Jazz con il sax soprano, musica che ha ritmo senza sottomettere la raffinatezza compositiva allo stesso, ripetizione modulare di stampo minimalista su tappeti di “cha cha” e dediche agli artisti del suo tempo proiettando il suo universo musicale in ogni anfratto dello scibile artistico a lui contemporaneo. Ha spostato l’attenzione su coordinate sconosciute, reinventando il jazz e facendolo suo. Rendendosi compositore nel senso “classico” del termine, con un suo linguaggio ed un suo retaggio. Ieri sera BONE ha reinventato la musica di Lacy, facendola sua e dimostrando ancora una volta che il processo è quanto di più interessante ci possa essere, vitale anima dell’arte, ed il prodotto un semplice effetto collaterale.

Zebio e Miky

Un libro è sempre una storia a sé. Il caso di questo Oscar Mondadori, edizione 1976 è all’interno di una storia più grande e si lega ad un personaggio che ho incontrato per la prima volta credo venticinque anni fa.

Chi frequenta Siena Jazz (l’accademia dove insegno da un paio di anni) non può non avere incontrato Miky Blues. Con il suo carrellino giallo, perennemente assorto nella lettura di qualche libro, dispensa consigli musicali, letterari e sulla vita tutta in maniera colorita e con un accento da partenopeo mai pentito. Spesso negli ultimi mesi l’ho visto frequentare le emozioni più oscure degli uomini…Rabbia, sconcerto, disillusione, violenza (nel suo caso sicuramente solo verbale…). Ho visto la sua solitudine, ed il suo essere così caparbio da lottare per occupare quella sedia dove dentro Siena Jazz, vende i dischi agli studenti, li consiglia, li conosce, li “penetra” al primo sguardo. Un paio di settimane fa Miky mi è venuto a trovare in classe durante un’ora di pausa portandomi due libri. Voleva venderli…ed io che a poche cose non so rinunciare ed una di queste sono sicuramente i libri, ne ho preso uno, proprio quello di cui ho messo qui la copertina. Edizione 1976, e devo ammettere l’ignoranza, autore per me sconosciuto. Ma la prefazione di Pasolini mi ha incuriosito….Per cui dopo aver fatto capitolare il libro che stavo leggendo, mi sono immerso in questo piccolo capolavoro di letteratura. Una storia di “ultimi” senza eroi, senza morale, senza giudizio. Una letteratura essenziale nel suo raccontare i confini delle emozioni umane, senza colpi di scena, ma solo un movimento inesorabile verso il fondo di un abisso che ogni essere umano conosce bene. La maggior parte ne ha tanta paura che ne scappa evitando di ammettere che esista. Molti resistono e la coscienza di tale oscurità rende la loro vita una gioia continua. Troppi non ce la fanno e colano a picco, scivolando sulle pendici troppo ripide di un dolore che affabula, trasforma e deturpa i pensieri, i gesti, i respiri. La storia di questo Zebio Còtal è la storia di questo, in una cornice asciutta e imperturbabile, quella dell’Appennino tosco emiliano, descritto nel suo inesorabile essere “Natura” indifferente agli uomini e alle loro necessità emotive. Una piccola gemma di una letteratura necessaria e dirompente, che attraverso l’italiano splendido dei metà anni cinquanta, si fa amare follemente…Almeno, e questo è ovvio, da me.

Pensavo quanto le relazioni fra persone non si possano mai dire casuali fino in fondo. Miky Blues è venuto a portarmi (cosa che non fa mai….spostarsi dalla sua postazione intendo…) questa storia, convinto che l’avrei apprezzata. Ma non posso non pensare che così facendo ha portato una parte di se stesso verso di me. E’ venuto a cercarmi, ha spinto la sua energia verso di me, e mi ha consegnato una parte delle emozioni che sono convinto stia, o sicuramente abbia provato in questo periodo.

Ramingo fra le vie di un borgo medioevale che si atteggia a grande città, cerca di resistere alla tentazione di partire per consumarsi nel viaggio, scomparire in una notte di freddo e neve come capita al personaggio del libro di Cavani. E venendo verso di me, cercando questa condivisione ha agito per resistere. Ed io ne sono felice, perché come a tutti quelli che lo hanno incontrato, Miky Blues mi è profondamente caro, e al di là delle sue asperità, rimane una delle persone più sensibili al bello che io abbia mai incontrato. Per cui, ancora una volta, grazie Miky.

Il confine – NES@Ibidem #7

Ieri per l’ultima serata in calendario (ma si recupererà quella del 12 Aprile in data 31 Maggio) del ciclo NES@Ibidem, il coordinatore del set è stato Luca Corrado. Per l’occasione ha riunito parte dello “zoccolo duro” di New Ethic Society, preferendo all’apertura verso l’esterno la sedimentazione delle relazioni. E nel farlo ha proposto un concerto che fin dalla strumentazione si prefiggeva lo scopo di spostare il confine di ciò che i singoli musicisti si sarebbero potuti aspettare dalla musica, e così è stato anche per il pubblico di cui facevo parte.

Per cui la voce di Giulia Cianca, che oramai è presenza importante di questi incontri essendo stata scelta numerose volte a comparire sul palco, le percussioni di Cristian Lombardi (che per l’ennesima volta ha re-immaginato il suo set per l’occasione) e Luca e Giorgio Tebaldi agli Ukulele (strumenti che suonano professionalmente da molti anni oramai) iper processati da pedali e effetti.

L’idea di una musica che nel “processo” del suono ricavava la sua condizione di esistenza è stata palpabile fin dall’inizio con cicli lenti e ripetizioni continue, trasformazioni e liquidità ad avvolgere il lavoro delle percussioni e ad accogliere gli arabeschi vocali, teso il tutto a convergere verso un finale più ritmico e più “naturale” per gli strumenti coinvolti.

Credo che Luca Corrado si sia prefissato l’obiettivo di spingersi in un luogo difficile per definizione, e chiedersi qualcosa che spingesse il proprio confine verso luoghi non controllabili fino in fondo, dominato dalla curiosità e da una certa irriverenza. L’idea di usare processato un Ukulele deve avere sfiziato la sua immaginazione quando ha pensato alla formazione da guidare per questo concerto. Ed in questo modo ha sacrificato tutto quello che avrebbe potuto maneggiare con sicurezza, avventurandosi in un luogo che se dal punto di vista sonoro è stato assolutamente coerente e le atmosfere forse fin troppo placide, dal punto di vista psicologico è stato luogo di tensione, di frustrazione e di incompiutezza.

Trovo sempre emozionante come una scelta porti con sé un significato “umano”. E non posso non voler bene ad una musica vissuta nel momento in maniera totalizzante, tanto da spingere ad una riconsiderazione profonda di quello che metodologicamente chiamiamo improvvisazione. Mi è apparso evidente quanto il processo psicologico dell’immaginazione sia parte ingombrante del processo metodologico basato sui materiali musicali e che coordinare lo spazio di un concerto sia in qualche modo definire uno “spazio”, in cui far accadere delle cose…La maggior parte delle volte cose immaginate prima, intrise di pregiudizio e aspettative. Nel caso di ieri sera, stare insieme e porre una domanda, un limite, uno scontro. E se la musica intesa come espressione linguistica mi è apparsa inconcludente per buona parte del concerto, la Musica come azione, luogo di incontro e lavoro collettivo, mi ha consegnato una grande lezione di lotta contro l’Ego, di fratellanza (le grandi risate con cui ferocemente ci si criticava dopo il concerto sono state le più belle risate che abbiamo condiviso da tempo…), e di immaginazione del confine come luogo di transizione, fra ciò che siamo, quello che immaginiamo e quello che siamo capaci di costruire. Il luogo dell’utopia insomma, dove però, per un momento (citando Olivetti) il sogno diventa proposito, da realizzare poi, ma per un momento reale e ispiratore del futuro.

Ringrazio questa musica, e una volta ancora ringrazio Luca, capace sempre di colpire dove ero convinto di essere al sicuro.

Non esserci

Per la prima volta non sarò presente al concerto di NES@Ibidem del martedì: il dovere di insegnante in questo caso mi impone di essere a Siena a recuperare lezioni. Mi spiace immensamente, vuoi perché la rassegna è una “mia” creatura, vuoi perché il musicista chiamato a coordinare il set è sicuramente qualcuno da seguire live sempre con attenzione, vuoi perché uno dei musicisti coinvolti nel set non potrà essere della partita a causa del Covid, e vuoi perché lascio la nostra presentatrice (e splendida cantante di New Ethic Society) da sola. Confido nel pubblico che ha sempre seguito le serate, e nella musica che sono sicuro sarà di livello siderale. Ma non voglio rinunciare a questi appunti del martedì, e con l’occasione riflettere su cosa significhi non esserci.

I concerti dal vivo sono sempre un occasione meravigliosa di confronto, sentire l’aria vibrare insieme ai musicisti, individuare gli sguardi di intesa, i sorrisi oppure le occhiatacce, soffermarsi a guardare il gesto, guardare con severità un ascoltatore che non si arrende alla sua necessità di chiacchierare ad alta voce, condividere l’ascolto con giovani e giovanissimi, oppure grandi vecchi e vecchissimi, è un rito che si è cristallizzato, per me, da molto tempo nella musica “dal basso”. Non riesco a farmi andare bene gli eventi, in nessun modo…Trovo una energia e freschezza in questi musicisti che tentano di trovare una strada, che sbagliano e che rinnovano il fuoco della passione per la musica che non riesco a trovare altrove. Non esserci quindi mi pesa, ancora di più perché mi privo di qualcosa a cui tengo veramente molto nel mio personalissimo universo di gioie.

Ma non esserci è anche una lezione. Impariamo presto che “esserci” è fondamentale, che bisogna incidere lo schermo da cui “tutti” ci guardano, che è necessario gridare forte il nostro essere in vita, il nostro “fare” il nostro essere importanti. E se così non fosse? A lezione oggi ho raccontato di Joe Maneri, in una sua toccante intervista ammette di avere realizzato il suo primo disco a 67 anni e di avere avuto sempre grandi difficoltà nell’apprendimento (probabilmente dislessico e discalculitico). La sua musica mi sta coinvolgendo sempre di più e pensare che la propria musica possa trovare una strada per avere attenzione al tramonto della propria esistenza e anni dopo trovare qualcuno dall’altra parte del Mondo che ne rimane folgorato non è proprio la narrazione più in voga di questi tempi.

Non esserci è anche un monito per tenere a bada l’ego. Sempre a lezione oggi abbiamo riflettuto su come il lottare contro l’errore, accanirsi verso il proprio strumento in risposta ad un evento non preordinato, oppure scatenare la propria voglia di suonare saturando lo spazio sonoro in modo da rendere difficile agli altri di intervenire siano due esempi evidenti di come l’ego subentri al confine con la fragilità.

Non esserci è importante…Nell’ Hagakure, Tsunemoto afferma che il primo pensiero del samurai è il riconoscersi come già morto. In assenza dell’attaccamento alla vita, ci sarà solo lo spazio per il pensiero di servire il proprio signore. A noi questo apparirà conflittuale, ma per traslazione è esattamente quello in cui mi ritrovo maggiormente. La lotta è non appartenere al proprio universo di giudizio, sostituire alla dimostrazione la condotta, e in definitiva procedere con l’amore verso gli altri in ogni cammino che ci impegnamo a percorrere.

Per dirla sempre come Joe Maneri : “Playing before an audience that’s tuned in to my work is a great privilege and joy. If they’re not [tuned in], it’s a great challenge to try to reach them with love. The things I accomplished I want to be in the hearts of everyone I meet.”

Di colazioni e sigarette

Ero a Palau, aspettando il driver che mi avrebbe portato non ricordo dove.

Era la prima volta nel festival nato dalla cura dei fratelli Angeli. Ricordo ancora che per chiedermi di partecipare, Paolo mi chiamò mentre raccoglievo more intorno al lago di Canterno nella mia amata Ciociaria, e la telefonata fu un regalo d’Agosto, inaspettato e foriero di grande emozione.

“Ti disturbo?”

“Veramente no, sto raccogliendo more con la mia famiglia…”

“Ah! E che fai, le mangi o ne fai marmellata?”

Questa è stata la prima conversazione con uno dei musicisti che più stimo e ammiro, a cui non avevo mai parlato prima.

Quella mattina dopo colazione leggevo (questo lo ricordo bene) la biografia di Stravinsky, lo ricordo perché mi chiesero cosa stavo leggendo, e fu quella domanda a far nascere un’amicizia che è durata per anni. Poi dispersa, come spesso si disperdono le emozioni…

Al tavolo vicino a me si siede una signora corpulenta, occhiali scuri, sigaretta accesa….Un caschetto di colore pastello ed una voce cavernosa dal fortissimo accento siciliano…Scambiammo qualche parola, mi parlò di Sollima che era suo amico. Grande energia che dissimulava una distanza di età importante con me, e con tutti quelli che erano lì quella mattina.

Qualche minuto molto simile ai tanti vissuti in quelle zone di transito dei Festival estivi…

Ho visitato la mostra curata da Nanni Angeli per il festival Isole che Parlano di quell’anno: foto di un mondo che sapeva di ricordo di infanzia. Di quei telegiornali che andavano durante le cene, le sere a casa, momento famigliare per eccellenza dei miei primi anni di vita.

Le riconobbi come parte della mia memoria, in qualche modo mi appartenevano. Quelle vecchie Fiat con gli sportelli aperti, quegli uomini dai lunghi cappotti, e le montature degli occhiali spesse, a deformare i lineamenti, spesso cappelli, le sigarette sempre accese.

E poi i bambini, quelli completamenti alieni, sguardi di adulti in corpi fragili e scuri.

Era la Palermo degli anni ottanta, erano gli anni ottanta che la signora dai capelli color pastello aveva immortalato con la sua macchina fotografica. Prima sul posto, prima fra tutti.

Oggi apprendo che Letizia Battaglia non c’è più, se ne è andata. Non rivendico tristezza perché fa parte di quegli incontri al crocevia delle esistenze…Epoche diverse, arti diverse, anime diverse. Ma la sua mostra mi ha insegnato qualcosa, l’ennesimo invito a non girare lo sguardo. Per questo la ringrazio, e le auguro di avere pace, questo si.

Forse perché lo auguro a me, visto che di Pace qui ne ho vista e ne continuo a vedere troppo poca.

Dormire

Sono giorni che non riesco a dormire per più di poche manciate di minuti.

Rimango inerme senza pensieri, una sorta di veglia passiva, in cui sento quello che ho intorno, ma priva di ansia, preoccupazione o qualsivoglia negatività. Sono corpo che guarda il Mondo, con una singolare percezione di vuoto interno. Probabilmente è l’effetto collaterale di abuso di caffeina, che è la mia più grande debolezza. Forse l’unica rimasta ma che continua a crearmi una dipendenza notevole, anche perché si associa a quello che, per me, a tutti gli effetti è l’ambrosia, il nettare supremo: il caffè.

Ma stanotte, per quanto non continuativamente, ho dormito e ho sentito il corpo rilassarsi, provare conforto nelle ore passate orizzontalmente.

Sono pieno di dolori cronici e cronicizzati, la mia vita non proprio regolare lascia i suoi segni, ed ho imparato che il dolore è una forma di geografia della memoria. Quello interno e profondo delle fratture, quello acidulo e piccante delle offese, quello caldo e ribollente delle perdite, quello soffocante del fallimento, fino a quello freddo e metallico della frustrazione.

Ieri sera abbiamo suonato PORTRAIT OF MINGUS AS A MAN , insieme ai miei sodali Mario Cianca e Cristian Lombardi. Posso dire che abbiamo suonato la musica che avevamo immaginato in omaggio al contrabbassista di Nogales. Senza tempo, divisa nel doppio psicologico, fragile ma allo stesso tempo furente, fuori dal “repertorio” ma dentro una visione artistica, che nel mio caso si fa sempre più chiara e totalizzante.

Per cui non sta a me valutare il senso estetico dell’operazione, ne tanto meno chiedermi cosa potesse essere migliore. Assunta la fragilità e l’incompiutezza come valore principale della mia visione, condiviso nel lavoro insieme con i musicisti con cui suono, accetto il momento come “tutto”. E ne gioisco. Per la semplicità della connessione, per la facilità prossima al respiro con cui gli scenari sono cambiati, per il silenzio che ha squarciato lo spazio, per quel galleggiare sulle melodie che hanno caratterizzato la musica di ieri sera. E mi accorgo quanto il lavoro di questo anno frutti, vedendo aprirsi la capacità di costruire della nostra immaginazione. Senza il freno di mostrare, ma agendo solo per “essere”.

Il mio grazie va anche al pubblico, che abbastanza numeroso da farsi percepire, ci ha dedicato un ascolto attento e intenso, sorbendosi un’ora di concerto senza interruzioni. Testardamente continuiamo a costruire qualcosa che agisce senza cercare niente altro che la “necessità” del senso.

Raccontiamo storie. Che servano anche per dormire, senza ansia e paura, senza ricordare il dolore, ma per creare sensazioni nuove di percezione del nostro corpo, per uscire dall’inerzia, per “fare”.

Che questi tempi hanno bisogno di Essere Umani, che mettano un freno alle bestie che imperversano incontrollate.